CORONAVIRUS
17 Aprile 2020 - 00:07
di CLAUDIO ROVERE
I posti letto occupati in questi giorni sono 10-11, a fronte di una capienza di 16. Soltanto una decina di giorni fa lo erano tutti e 16 e c’era la fila, giù in basso, in pronto soccorso, in attesa di potervi accedere. Tanto che per alcune ore si è temuto il collasso delle strutture. L’emergenza ha probabilmente passato il suo picco, ma la guardia nel reparto Covid dell’ospedale di Susa, ricavato in tutta fretta nell’ala nuova del nosocomio di corso Inghilterra dedicata all’ortopedia e alla chirurgia, non viene ancora abbassata. Ne è consapevole chi questa struttura la dirige, il dottor Lucio Leggio. Originario di Africo, in provincia di Reggio Calabria, Leggio abita a Settimo ed è in forza all’ospedale di Susa dall’ottobre del 2015. Dopo aver completato gli studi al Sud, laureandosi all’Università di Messina in malattie polmonari e chirurgia toracica, come tanti corregionali ha preso la via del Nord, trovando occupazione all’ospedale di Susa.
L’emergenza, che ha consigliato l’Asl To3 di aprire un reparto dedicato Covid per alleggerire la pressione su Rivoli e S.Luigi, lo ha catapultato da un giorno all’altro al centro del sistema di lotta al virus. Un baluardo medico in frontiera prima dell’inferno di Rivoli e quello torinese. «Adesso, in questi ultimi giorni, c’è un po' meno pressione, ma per due settimane siamo stati messi duramente alla prova - confida - La mia giornata iniziava alle 8 e terminava mediamente alle 24, tutti i giorni così».
Non c’era tempo per pensare, bisognava agire, con urgenze che si accumulavano e contro cui poco servivano quelle tute da astronauti. Ti riparavano dal virus sì, ma non dallo stress di una situazione di cui non vedevi la fine. In corsia e sul territorio sono 122 (dato aggiornato a ieri) i medici che hanno perso la vita per il Covid, una trentina le infermiere. Dati che fanno paura. A noi. Figuriamoci a chi è lì in prima linea. «No, non ci penso, non ci ho mai pensato al fatto che potrei contagiarmi e magari morire anch’io - replica deciso - non è coraggio, neppure spavalderia, è semplicemente l’unico modo per resistere nell’inferno di questa malattia, con percentuale di mortalità molto elevata, cosa cambierebbe se venissi tutti i giorni in corsia con questi pensieri negativi? Non servirebbe a nulla, anzi danneggerebbe il mio lavoro, non pensarci è un modo per proteggere me, ma anche i miei colleghi e gli ammalati».
Il dottor Leggio praticamente vive, da ormai 25 giorni, all’ospedale di Susa. Di notte dormiva in uno stanzino, su un poltrona che si trasforma in letto. Adesso può farlo su un vero materasso, grazie al fatto che la sua storia abbia emozionato tante persone, ed in particolare i titolari del “Gruppo Pè Arreda” di Sangano. Gianfranco Pè e la moglie Alessandra Miglio hanno donato una solida rete ed un materasso ortopedico, su cui il medico Covid può riposarsi al termine del proprio turno, che in questi ultimi giorni ha avuto orari un po’ più umani. E il fatto di essere sempre qui, in frontiera, non gli permette di avere molti contatti con la famiglia, con la moglie, che lavora anche nell’ambito dell’emergenza Covid, al Sisp di Chieri, e due bambini di due e quattro anni. «Mia moglie è preoccupata, è normale - ammette - ma a malincuore ho scelto di andare a casa il meno possibile, per non portarmi dietro delle “sorprese” e non infettarli; è dura, certo, e corro da loro proprio quando i pianti dei miei bambini diventano insopportabili».
Prestare la propria opera in un reparto Covid, anzi coordinarlo, non è un’esperienza come un’altra. Da fuori almeno la percepiamo così. «Sì, è faticosa, sia dal punto di vista fisico, per il numero di ore e per il fatto di lavorare con i dispositivi di protezione, ma anche e soprattutto emotivamente - conferma Leggio - Io provengo dal pronto soccorso, che a volte ti mette di fronte a situazioni estreme, anche alla morte, ma sono esperienze fugaci, che nella maggior parte dei casi non ti permettono di entrare in empatia con il paziente, qui invece è completamente diverso: è come il pronto soccorso, si lotta tutti insieme per la sopravvivenza del paziente, ma lo facciamo per 12-13 giorni, anche due settimane, sei obbligato ad entrare in relazione con l’ammalato, ti metti al suo posto e a quello dei suoi familiari, con cui non può comunicare se non attraverso il tablet che gli forniamo noi, per pochi minuti al giorno; qui si muore e si guarisce soli, e noi dobbiamo anche riempire questo vuoto emotivo in loro».
L’empatia, in questi casi, è preziosa quasi quanto il Plaquenil ed è una dote riconosciuta da tutti, colleghi ed ammalati, al dottor Leggio. «Siamo in guerra e siamo dalla stessa parte; e se si è dalla stessa parte ci si aiuta, è naturale, forse a me viene più facile per carattere, ma vedo che c’è grande disponibilità in tutti i miei colleghi e questo nelle particolari condizioni di un reparto Covid è di vitale importanza; ma anche dimettere un paziente guarito per noi non è una soddisfazione che avrebbe lo stesso peso in condizioni normali».
Ma visto da dentro, il Covid-19 alla fine potrà essere vinto o dovremo conviverci ancora a lungo? «Beh, per vincerlo penso occorra attendere il vaccino - ammette - probabilmente andremo incontro ad un progressivo miglioramento verso i mesi caldi, ma dovremmo fare molta attenzione all’autunno, non abbassando la guardia nei nostri comportamenti individuali, perchè con il freddo il virus potrebbe riprendere vigore; rispetto a qualche mese fa però avremo più consapevolezza e le nostre buon pratiche che abbiamo perfezionato in queste settimane potrebbero permetterci di spalmare di più l’emergenza, consentendo di curare tutti e meglio».
Su Luna Nuova di venerdì 17 aprile 2020
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