Mario Maurino, l’uomo che sa scalare anche la menomazione
MONTAGNA E VITA
CORONAVIRUS
30 Aprile 2020 - 00:30
di CLAUDIO ROVERE
Una brutta storia di Covid, per fortuna condensata in un lieto fine, che ha per protagonista un uomo di Druento ma che affonda le sue radici a Villarfocchiardo. Protagonista è infatti Paolo Capogrosso, 38 anni, marito di Francesca Bruno, secondogenita di Flavia Grande, insegnante che ancora oggi vive in paese. Paolo e Francesca dopo il matrimonio hanno scelto di andare a vivere a Druento. La storia inizia con quello che sembra essere un comune male di stagione.
«È fine febbraio, ormai sono diversi giorni che non riesco a chiudere occhio, nonostante l’assunzione di antibiotici la gola mi va a fuoco - ricorda Paolo - mi decido ad andare al pronto soccorso, al mio arrivo mi misurano la temperatura e dopo una lunga attesa mi visitano, ho una tonsillite acuta, mi ricoverano una notte, flebo di antibiotici e al mattino seguente mi rimandano a casa, prescrivendomi una terapia farmacologica». Passano cinque giorni. La tonsillite pare dargli tregua ed a Paolo non pare vero di poter finalmente riposare. Ma è soltanto l’inizio della sua odissea. Di lì a poco si ripresenta la febbre, che talvolta sfiora i 40 gradi. «Allora decido di ritornare al pronto soccorso - prosegue il suo racconto - siamo all’inizio dell’allerta Covid 19 in Italia, un po’ di preoccupazione inizia a fare breccia in me, al mio arrivo questa volta oltre a misurarmi la temperatura mi forniscono guanti e mascherina, il pronto soccorso è deserto ma nonostante questo attendo tre ore prima di essere visitato, finalmente è il mio turno, decidono di farmi il tampone e mi isolano in una stanza dove un infermiere non mi perde di vista per tutta la notte, mentre io ovviamente non chiudo occhio».
Il giorno seguente, nel primo pomeriggio la notizia che non avrebbe mai voluto sentire: il tampone è positivo. «Chiamo mia moglie chiedendole di portarmi degli indumenti perché da lì a poco mi avrebbero portato all’ospedale Carle di Cuneo in quanto a Torino gli ospedali sono già al completo. Arriva mia moglie, per fortuna ci permettono di stare qualche minuto assieme, mi vengono i brividi a pensare che quella poteva essere l’ultima volta che ci vedevamo, l’ultimo sguardo attraverso il vetro e sono nuovamente solo, l’ambulanza tarda ad arrivare, l’attesa è snervante. Finalmente mi avvisano di prepararmi, l’ambulanza è arrivata, dopo un’ora di viaggio arrivo a Cuneo, mi portano nel reparto riservato ai pazienti Covid, sono in stanza con un uomo di 48 anni (a fine marzo scoprirò dai giornali che lui purtroppo non ce l’ha fatta), io febbre a parte sto bene ma dopo tre giorni inizio ad avere difficoltà a respirare, decidono di aiutarmi con l’ossigeno e di iniziare la terapia con dei farmaci sperimentali».
La situazione non migliora e nel giro di poche ore Paolo si ritrova in medicina d’urgenza con un casco in testa. «Sono frastornato e faccio fatica a capire cosa stia succedendo, mi consigliano la sedazione e l’intubazione in quanto è la soluzione migliore e forse l’unica per affrontare la polmonite, ho pochi minuti per decidere, sono le 2,30 del 13 marzo, riesco solo a registrare un messaggio vocale per Francesca, in cui le spiego la situazione, lei ovviamente è spaventatissima, forse più di me, le dico di tenere duro e di non preoccuparsi, non ho nessuna intenzione di lasciare sola lei e mia figlia, le chiedo di avvisare i miei genitori e di dire a tutti i miei amici che voglio loro bene (mi rendo conto di non averglielo mai detto) faccio fatica a parlare, il medico mi obbliga a spegnere il cellulare, da lì buio totale».
La luce ritorna più di una settimana dopo il 22 marzo, quando i medici decidono che è arrivato il momento di risvegliarlo. «Sono trascorsi dieci giorni, negli ultimi due mi hanno ridotto il sedativo, a momenti sono semicosciente, sono legato al letto, non so dove sono, non ricordo nulla, una sensazione bruttissima. Dieci del mattino, finalmente riapro gli occhi, ho cavi e tubi ovunque, sono ovviamente ancora stordito, l’unica cosa che voglio è togliermi quel tubo dalla gola ma non ci riesco, non ho la forza di alzare le braccia, dopo alcuni esami mi estubano, è giunta l’ora di respirare nuovamente con i miei polmoni, mi rinfilano il casco e mi lasciano riprendere. Ho tantissima sete, ma per ora niente acqua, potrei non riuscire a deglutire, mi devo accontentare della gelatina di frutta e di un fazzoletto imbevuto di acqua da succhiare. La prima cena della mia nuova vita non è stata emozionante, mi rifarò pochi minuti dopo, la dottoressa finalmente mi permette di riaccendere il cellulare e di videochiamare mia moglie, stranamente l’impronta digitale non funziona e non riesco a digitare correttamente il codice, per fortuna viene in mio aiuto un’infermiera che digita il codice e regge per me il cellulare durante la videochiamata, ecco apparire a video mia moglie e mia figlia. Greta appena mi vede mi offre il suo biscotto che stava mangiando. Non riesco a trattenere le lacrime e a dir il vero faccio fatica anche a parlare, non a causa della mia debolezza ma perché sono troppo emozionato e ancor più felice».
Dopo 13 giorni d’ospedale Paolo lascia la rianimazione. «È ora di provare a rimettermi in piedi, il desiderio di tornare a casa da mia moglie e mia figlia mi da la forza di provare a bruciare le tappe, appena mi rimetto in piedi mi rendo però conto che non posso esagerare, a malapena riesco a raggiungere il bagno, la strada sarà dura. Sto comunque migliorando e gli esami lo confermano, è il 26 marzo e il primo tampone di controllo è negativo, sono felice ma anche triste nel vedere dalla finestra della camera un via vai di carri funebri. Il giorno seguente anche il secondo tampone è negativo, finalmente sono guarito, sono stanco di vedere moglie e figlia attraverso un cellulare, sono ormai venti giorni che sono lontano da casa».
E finalmente arrivano le dimissioni, il 28 marzo. «Sono al settimo cielo, chiamo subito mia moglie e con le lacrime agli occhi di felicità le chiedo di farmi venire a prendere da qualcuno in quanto lei è ancora in quarantena domiciliare. Un amico mi aspetta in macchina, la dottoressa mi accompagna fino all’uscita, si raccomanda di non fare troppi sforzi, ringrazio lei ma virtualmente lo sto facendo con tutti coloro che mi hanno salvato la vita mettendo a rischio la propria, mi accingo a scendere le scale, faccio molta fatica e mi vergogno un po’ nel farmi vedere in quelle condizioni, salgo in macchina e mi emoziono come un bambino nel poter rivedere finalmente il mondo; mi rendo conto che questa esperienza mi ha profondamente segnato, ho visto la sofferenza negli occhi dei malati e in quelli dei medici, ora però riesco a pensare a una cosa sola, vivere e lasciarmi alle spalle tutto questo. Un abbraccio e una preghiera per tutti coloro che stanno lottando contro questo maledetto virus».
Su Luna Nuova di giovedì 30 aprile 2020
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