COVID-19
04 Maggio 2020 - 23:43
di CLAUDIO ROVERE
Sono stati due lunghi mesi per tutti, ma per gestori e personale del rifugio Ciao Pais la quarantena deve essere sembrata davvero eterna. Anche perchè loro hanno fatto una vera quarantena, isolati nelle loro camere della struttura alberghiera sulle piste di Sauze d’Oulx, con un morto da piangere, Bruno Bruschi, fratello della titolare, Giusy, che gestisce la struttura dal 1994 e dal 2003 ne è anche proprietaria, senza essere sottoposti al tampone per oltre un mese e riforniti soltanto dal Soccorso alpino con le motoslitte, almeno nelle prime settimane in cui lo strato nevoso non permetteva alle auto di raggiungere il rifugio.
Poi, lo scorso 17 aprile, dopo infinite insistenze, il tampone e il “libera tutti” dal 23 aprile e la fine di un’Odissea. «Stiamo cercando di ritornare ad avere una vita normale, ma è molto difficile - ammette la stessa Giusy Bruschi - questa vicenda ci ha molto segnati, tutti, per la morte di mio fratello, certo, ma anche per il fatto che per lungo tempo ci siamo sentiti dimenticati, e questo fa male quasi come piangere la scomparsa di un congiunto solare come era Bruno». E dire che quassù al Ciao Pais si erano mossi per tempo, senza attendere decreti. «Quando a metà febbraio abbiamo capito che l’arrivo dell’epidemia sarebbe stata questione di giorni anche qui in Italia hanno fatto subito una riunione con i dipendenti per prendere le necessarie misure di sicurezza - ricorda Giusy - da allora abbiamo lavorato con i guanti e curato in modo ancora maggiore la pulizia, cercando di mantenere il più possibile la distanza fra di noi e con i clienti».
Ma tutto questo alla fine si è rivelato inutile. Il colpo di grazia allo staff del Ciao Pais l’ha molto probabilmente dato il famigerato weekend del 7 e 8 marzo, quando gli inviti giunti da più parti a “venire in montagna, dove non c’è pericolo di contagio”, alla lunga deleteri, hanno ammassato tra Montagne olimpiche e Bardonecchia una folla che neanche a Ferragosto o nelle vacanza natalizie... «Sì, quel sabato e quella domenica le presenze per alcuni momenti sono state letteralmente ingestibili - ammette Giusy - c’era troppa gente, anche proveniente dalla Lombardia».
E non a caso i primi sintomi del virus all’interno delle storiche mura del Ciao Pais si sono manifestati nella settimana successiva, ad impianti sciistici ormai chiusi ma a “frittata fatta”. «Hanno iniziato mio fratello Bruno e lo chef, i primi ad avere la febbre - rivela Giusy - Il 9 marzo abbiamo fatto un’altra riunione con il personale ed abbiamo deciso di comune accordo di fermarci qui, in quarantena volontaria». Qui inizia però la vera odissea di questo gruppo di 10 persone. «È stato un continuo scaricabarile - accusa Giusy - per parlare la prima volta con il 1500 ci ho impiegato almeno 8 ore». Nel frattempo Giusy e gli altri si isolano nelle stanze ormai lasciate libere dal fuggi fuggi dei clienti. «Bruno continuava a stare male ed avere la febbre - ricorda la sorella - ma pur avendo patologie pregresse il suo carattere solare lo portava a minimizzare sempre tutto, non voleva essere di peso».
Ma la situazione a cavallo del primo weekend di quarantena si aggrava e il 17 inizia ad avere anche seri problemi respiratori. La decisione di ricoverarlo è l’unica possibile e Bruno viene portato via con il toboga del Soccorso alpino. «È l’ultima immagine di mio fratello - ricorda con dolore Giusy - aveva lo sguardo spaventato, me la porterò con me finchè vivo». Da quel momento la paura si impenna nella quarantena forzata del Ciao Pais. «Il cuoco ha avuto la febbre per 12 giorni, io stessa ed altri avevamo sintomi più lievi ma comunque eravamo tutti spaventati e nessuno si è degnato di venirci a fare un tampone», accusa Giusy.
Intanto dopo 18 giorni i sanitari di Susa provano a svegliare Bruno dalla sedazione. Reagisce bene per qualche ora, però poi il suo quadro clinico si complica ulteriormente e dopo due giorni spira. «Niente sarà più come prima - rivela Giusy - lo zio Bruno era il collante di questo luogo con la sua simpatia, con la sua umanità, come ha dimostrato la quantità di attestazioni di stima e di cordoglio che abbiamo ricevuto in questi giorni, ma ricominciare sarà difficile con questo peso sulle spalle». Però l’attività non può rimanere ferma. «Sì, ci stiamo attrezzando per fare almeno il menù da asporto in queste settimane, poi dal 1° giugno vedremo». La vita continua, ma con un sorriso in meno e quel senso di abbandono vissuto in questi due terribili mesi, difficile da scrollarsi di dosso. Forse per sempre.
Su Luna Nuova di martedì 5 maggio 2020
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