COVID 19
30 Novembre 2020 - 22:10
di CLAUDIO ROVERE
I ragazzi del ‘99 salvarono l’Italia sul Piave dopo Caporetto. Adesso, a oltre un secolo di distanza ci provano i ragazzi degli anni ‘90. Niente grigioverde, niente fango delle trincee. Soltanto camici bianchi, dpi, tutone protettive che ti fanno sembrare impacciato anche se hai 25 anni e che ti rendono praticamente irriconoscibile, uguale al tuo collega di corsia. Il nemico è meno visibile, ma le sue “pallottole” ti fischiano ugualmente vicino. Ma più che pensare a te devi salvare la vita a chi si trova nella tua trincea. Debole, indifeso, spesso molto più anziano di te. A Susa sono sei i medici neolaureati che hanno sostenuto il battesimo del fuoco tra il reparto Covid e la medicina all’ospedale di corso Inghilterra. Metà di loro sono valsusini: Edoardo Vai, di Chianocco, e i fratelli aviglianesi Pietro e Alberto Balagna, 75 anni in tre. Accanto a loro tre donne, la rivaltese Stefania Bianchi, la torinese Diletta Zummo e Federica Tomaino, catapultata in valle di Susa direttamente dall’altro capo d’Italia, Lamezia Terme.
Edoardo Vai, classe 1995, una vita passata fra lo studio e il basket, con trascorsi a Bussoleno, Kolbe Torino e, ora, Condove, in realtà vorrebbe specializzarsi in ortopedia e traumatologia, ma quando ha visto materializzarsi la seconda ondata Covid non ha esitato a rispondere alla chiamata dell’Asl To3. «Mi sono laureato a luglio e nel corso della prima ondata per noi non c’era ancora la possibilità di rendersi utili, e mi era dispiaciuto un po’ - spiega - però adesso non ci ho pensato su un attimo e mi ci sono buttato; sinceramente pensavo di essere dirottato a Rivoli, dove i numeri sono decisamente maggiori, ma ho anche avuto la fortuna di essere assegnato a Susa».
I turni sono tosti, spesso la settimana è sette su sette, nessuno escluso, dal responsabile Covid Lucio Leggio a quello del pronto soccorso Attilio La Brocca. «La nostra vita lavorativa è così, è una professione che ci siamo scelti noi - taglia corto Edoardo - e questa, oltre a essere l’occasione per rendersi subito utili nel post-laurea in un momento in cui tutti siamo chiamati a dare qualcosa in più, è anche un grande assist alla nostra crescita professionale».
Condivide il suo pensiero Federica Tomaino, classe ‘92, da Lamezia Terme. «Ho dovuto fare le valigie in due giorni e dalla Calabria arrivare qui in valle di Susa, un luogo dove non mi sarei mai immaginata di iniziare la mia carriera - ammette - ma adesso sono veramente felice di averlo fatto; Susa è un piccolo ospedale, però ho trovato un grande ambiente, tutti hanno cercato di mettermi a mio agio, dai miei colleghi ai superiori, dalle infermiere alle oss, e personalmente cerco di dare il massimo per ricambiare la fiducia che ho ricevuto e cerco di operare con in mente sempre la prima cosa che ci ha detto il dottor La Brocca il giorno del debutto, “Siete nascosti dai dispositivi di sicurezza e l’unica parte che i malati vedranno distintamente di voi saranno gli occhi, saranno i vostri occhi ad essere ricordati, fate sì che sia un buon ricordo”».
Federica ha preso casa a poche centinaia di metri dall’ospedale. La sua vita di giovane medico adesso è tutta lì, in quel piccolo quadrilatero segusino. «Ovviamente è un’esperienza professionale importante, ma lo è ancora di più dal punto di vista umano - ammette - ho conosciuto un mio conterraneo come Lucio Leggio, che è un vero e proprio vulcano, che fa dell’empatia la sua arma migliore nei confronti dei ricoverati, che qui sono completamente soli, e poi in queste prime settimane ho imparato a rivalutare i valori veri della vita, che la nostra routine quotidiana a volte tende a farti dimenticare».
E in corsia deve fare i conti con momenti belli, ma anche molto brutti. «Sì, è stato molto difficile dover telefonare ai parenti di un paziente dicendo loro che purtroppo non ce l’aveva fatta, ma nulla vale di più di quel “grazie” dei dimessi, che per fortuna sono la maggioranza».
Per i fratelli di Avigliana Pietro e Alberto Balagna la professione medica è una tradizione di famiglia. Il padre Roberto, in passato anche amministratore nella città dei due Laghi, ha fornito l’esempio, colto anche dalla sorella minore Elisa, classe ‘98, che è al quinto anno di medicina. Pietro, classe ‘94, è il più “vecchio”, si è laureato a Pavia, nel corso di laurea che si svolge dall’inizio alla fine in lingua inglese, e avrebbe avuto un sacco di porte schiuse da subito verso una luminosa carriera, dall’Inghilterra agli Stati Uniti. Invece, almeno per il momento, ha scelto di rimanere qui, nella sua valle, dove c’era più bisogno. «Susa è proprio un bel ambiente per lavorare - afferma - non siamo carne da cannone buttata lì a farsi macellare, siamo seguiti passo passo dai superiori e dai colleghi con più esperienza, ma siamo anche responsabilizzati, è la parte più difficile, ma anche quella che ti fa crescere di più».
Gli fa eco il fratello minore Alberto, che è il più giovane del gruppo, avendo soltanto 24 anni. «Siamo seguiti e supertutelati, questo ti permette di lavorare più tranquillo, dando il meglio di te stesso». Ma i ritmi, in un reparto Covid, non sono certo da imboscati. «Devo ammettere che pensavo di fare cose con meno responsabilità all’inizio - svela Alberto - però la prima cosa che mi hanno detto è “fai questo ricovero”; mi sono trovato subito un po’ spiazzato, ma poi l’ho fatto e sono cresciuto di più in queste settimane di quanto avrei potuto fare, forse, in altri ambiti; fortunatamente siamo usciti da Università molto buone e anche tra di noi cerchiamo di tenerci aggiornati, io personalmente discuto molto, nel poco tempo libero, con i miei ex compagni sulle rispettive esperienze dei reparti Covid».
Una crescita impensabile anche dal punto di vista umano. «Sì, siamo le uniche persone che gli ammalati possono vedere ed è una grande responsabilità - dicono in coro i due fratelli medici - a volte una parola giusta al momento giusto è la più grande medicina che puoi somministrare, ed anche il rapporto con i parenti a casa è importante, anche con loro non ci si può fermare ad un freddo comunicato professionale, ma si deve andare oltre, senza fornire facili illusioni nei casi più gravi e cercando di infondere sicurezze in quelli di più semplice risoluzione».
È domenica pomeriggio, chi ha finito il turno torna a casa, altri iniziano il rito della vestizione per prendere servizio. Mentre le prime luci della sera scendono su una Susa che non sembra essersi accorta di essere passata in zona arancione, inizia un’altra notte in trincea. Il Covid è un nemico invisibile e ancora molto pericoloso, ma non vorremmo essere al suo posto quando incontrerà la passione e la determinazione di questi ragazzi. Con i piedi ben piantati sulla loro personalissima linea del Piave: la corsia di un ospedale.
Su Luna Nuova di martedì 1 dicembre 2020
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